Andare a fare la spesa o stare semplicemente casa durante i cosiddetti permessi 104 può essere giusta causa di licenziamento in tronco. È molto diffusa la pratica dei caregivers, che godono dei tre giorni di permessi ex art. art. 33, co. 3, della L. n. 104/1992, di svolgere tutt’altro che prestare assistenza al disabile. A volte si pensa, in modo errato, che nessuno verrà mai a sapere se si presta effettivamente assistenza o meno. Il datore di lavoro, però, può lecitamente controllare il lavoratore se adempie al suo dovere mediante un investigatore privato. L’investigatore, infatti, può essere ingaggiato e fatto valere eventualmente in giudizio come testimone, ai fini della legittimità del provvedimento espulsivo nei confronti del lavoratori.
A stabilirlo è la Corte di Cassazione con la sentenza n. 18411 del 9 luglio 2019. Ecco i dettagli della sentenza.
Abuso dei permessi 104: la vicenda
La vicenda trae origine da un licenziamento intimato a un lavoratore per giusta causa, in quanto ha abusato dei permessi ex art. 33, co. 3, della L. n. 104 del 1992. Sia in primo che secondo grado di giudizio, i giudici confermano la legittimità del licenziamento. In particolare, i giudici di merito hanno osservato che poteva ritenersi raggiunta la prova dell’abuso di due “permessi 104”, rinvenibile dall’agenzia investigativa (incaricata dal datore di lavoro). In pratica, durante le due giornate di permesso il lavoratore non era mai entrato o uscito dalla propria abitazione e, dunque, non si era recato presso la (diversa) residenza della zia per fornire assistenza.
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Il lavoratore, dal canto suo, affermava che aveva prestato regolare assistenza alla zia come era abitudine, ad eccezione di ore durante le ore di permesso. Inoltre, dichiarava di non aver avvistato alcun investigatore durante i giorni incriminati.
Il lavoratore, quindi, impugnava la sentenza e ricorreva in Cassazione.
Utilizzo improprio dei permessi legge 104: la sentenza
I giudici della Suprema Corte respingono tutti i motivi di ricorso e confermano la validità del provvedimento espulsivo del lavoratore. Secondo gli ermellini, dalle risultanze del teste emerge un evidente abuso dei “permessi 104”, che si traduce irrimediabilmente in licenziamento per giusta casa, in quanto è venuto meno il vincolo fiduciario che lega le parti.
A nulla rileva la fattispecie sollevata dal ricorrente secondo il quale si sarebbe dovuta produrre la nullità delle indagini investigative, poiché svolte da soggetti privi delle licenze prefettizie. Inoltre è stato affermato che non viene violato, né il principio di buona fede né il divieto di cui all’art. 4 della legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), ben potendo il datore di lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d’opera tenuto ad operare diligentemente per tutto il corso del rapporto.
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Dalla sentenza emergono, dunque, i limiti entro i quali i datori di lavoro possono lecitamente controllare i lavoratori, anche con agenzie investigative, per assicurarsi la corretta fruizione dei permessi per Legge 104, senza sconfinare nella violazione della privacy.
In particolare, i controlli – demandati dal datore di lavoro ad agenzie investigative – riguardanti l’attività lavorativa del prestatore svolta anche al di fuori dei locali aziendali, sono leciti laddove:
- non riguardino l’adempimento della prestazione lavorativa;
- siano finalizzati a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente (cfr. Cass. 12 settembre 2018, n. 22196; Cass. 11 giugno 2018, n. 15094; Cass. 22 maggio 2017, n. 12810).
Quindi, affinché le agenzie investigative operino lecitamente, le loro indagini non devono sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria.
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