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Discriminare il lavoro part-time penalizza le donne: il parere della Cassazione

Le discriminazioni del lavoro part time per le progressioni economiche vanno a penalizzare maggiormente le donne: il parere della Cassazione.


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di - 27 Febbraio 2024

Quando un’azienda deve applicare delle progressioni economiche valuta diversi aspetti legati alle competenze e alle capacità dei candidati tra i propri lavoratori. Un fattore di discriminazione non indifferente tuttavia può essere lo svolgimento del lavoro part time, che prevede un orario ridotto rispetto al tempo pieno.

Nel dettaglio, recentemente la Cassazione è intervenuta su questo tema, evidenziando che la discriminazione esistente dei datori che garantiscono progressioni economiche soprattutto a chi lavora full time, a discapito dei lavoratori part time, va a penalizzare fortemente la componente femminile dei lavoratori.

Questo perché una grande parte delle lavoratrici donne svolge un lavoro con orario ridotto, per mezza giornata, al contrario dei colleghi uomini. Penalizzando il part time nelle progressioni economiche quindi si va automaticamente a discriminare il lavoro femminile. Ma vediamo nel dettaglio cosa dice la Cassazione.

Lavoro part time e progressioni economiche: la vicenda

L’ordinanza a cui facciamo riferimento è la n. 4313, sezione lavoro, del 19 febbraio 2024, in riferimento ad una vicenda che riguarda una dipendente assunta a tempo parziale presso l’Agenzia delle Entrate e una presunta discriminazione nell’applicazione di progressioni economiche.

La lavoratrice aveva denunciato di essere stata al centro di una discriminazione nel passaggio ad una fascia retributiva migliore unicamente perché svolge un tipo di lavoro part time, al contrario dei colleghi assunti a tempo pieno.

Di fatto la lavoratrice ha denunciato che in fase di selezione interna tra il personale assunto dall’Agenzia delle Entrate, le sia stato applicato un punteggio inferiore ai colleghi assunti a tempo pieno, per la sola motivazione del minor numero di ore di lavoro svolte durante la giornata.

Il criterio dell’anzianità quindi secondo la lavoratrice non è stato applicato in modo equo, ma discriminatorio verso i suoi confronti, con un punteggio maggiore assegnato al collega full time. In un primo momento la questione si risolse con la richiesta di cessazione del comportamento discriminatorio individuato, con risarcimento di 8.466,47 euro alla lavoratrice. A seguito di un controricorso si è arrivati in Cassazione.

La Cassazione ha ribadito che non esiste alcuna correlazione automatica tra il numero di ore svolte dai dipendenti (se full time o part time) e anzianità di servizio nella valutazione di una progressione economica. Nella pratica, possiamo dire che non è consentito discriminare un lavoratore perché svolge una mansione part time nella valutazione complessiva del merito per accedere a condizioni economiche migliori, a parità di anzianità.

Lavoro part time e femminile

La risposta della cassazione quindi fa chiarezza sulla questione, evidenziando che non è detto che un lavoratore full time abbia necessariamente maggiori competenze o esperienza rispetto ad un lavoratore part time, a parità di anzianità di servizio.

Tuttavia da questa disputa emerge anche un altro fattore, ovvero quello del lavoro femminile e della discriminazione indiretta applicata in questi casi. Nel dettaglio, ad oggi a svolgere lavori di tipo part time sono prevalentemente le donne, per diverse motivazioni.

Al di fuori di questa ordinanza, anche l’Istat ha individuato dati interessanti che riguardano proprio il lavoro femminile nel paese: quasi un terzo delle donne lavoratrici è impiegato in un orario part time, contro l’8% degli uomini occupati.

Questa scelta molto spesso è data dalla necessità delle donne di dedicare una parte importante delle proprie giornate nella cura di figli, anziani o persone con difficoltà.

Tornando all’ordinanza, la penalizzazione della dipendente assunta part time nel punteggio volto a determinare la progressione economica causa indirettamente anche una discriminazione di genere, in quanto le donne costituiscono la maggioranza degli occupati part time anche nel luogo di lavoro specifico a cui si rivolge l’ordinanza. In generale questo dato è confermato anche a livello italiano.

La Corte ha quindi rigettato il ricorso da parte dalla datrice di lavoro, evidenziando come la legge italiana non permetta tale forma di discriminazione, ma solamente una più generale distribuzione delle retribuzioni in modo equo rispetto al totale delle ore svolte.

Discriminazione del lavoro part time: le normative

Una norma che è stata discussa e trattata in questa ordinanza è quella riferita all’articolo 4 del decreto legislativo n.61 del 2000. Questo articolo spiega che il trattamento del lavoratore a tempo parziale in linea generale deve essere riproporzionato in relazione alla ridotta entità della prestazione di lavoro.

Di fatto questo vuol dire che il datore di lavoro deve assicurarsi che i lavoratori impiegati full time e quelli part time ricevano in egual misura uno stipendio equo in base alle ore effettivamente svolte. Tuttavia questa norma non trova applicazione per ciò che riguarda la possibilità di accesso a determinate progressioni economiche.

In questo caso vanno tenuti in considerazione altri fattori, come l’esperienza effettivamente acquisita (che non è necessariamente maggiore nel caso dello svolgimento di un lavoro a tempo pieno), le competenze e le capacità legate ad una mansione particolare e così via.

I parametri da valutare per garantire l’accesso ad una retribuzione migliore devono essere quindi diversi da quelli dell’organizzazione del lavoro in modalità part time o full time. La retribuzione invece deve essere commisurata alla quantità effettiva di ore svolte.

Lavoro femminile e gender gap

Negli ultimi anni l’attenzione verso il lavoro femminile è aumentata, in particolare anche a seguito di alcuni provvedimenti presi dai diversi governi. In particolare le donne sono al centro dell’attenzione soprattutto per la difficile alternanza tra lavoro e assistenza alla famiglia e per diverse discriminazioni presenti nel mondo del lavoro.

Riportiamo qui alcuni dati sul 2023 di Confcommercio: il tasso di occupazione delle donne in Italia è del 43,6%, in contrasto con la media europea del 54,1%. Oltre a questa differenza, che riguarda la possibilità di svolgere regolarmente un lavoro, c’è un gap non indifferente anche per le condizioni economiche delle donne.

In particolare, accedere a posizioni manageriali o di dirigenza è statisticamente più difficile per le lavoratrici donne rispetto ai colleghi uomini. Come riporta Forbes ad esempio, è solo il 32% delle donne a raggiungere posizioni di dirigenza, contro il 68% degli uomini.

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Tags: Cassazione