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Part-time verticale ciclico: validità per la pensione dei mesi non lavorati

Ai fini dell’anzianità contributiva utile per la determinazione della data di acquisizione del diritto alla pensione, non vi è alcuna differenza tra lavoratori con part-time verticale ciclico e lavoratori a tempo pieno.


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di - 22 Maggio 2018

La Cassazione è intervenuta recentemente in tema di part-time verticale ciclico relativamente alla utilità dei periodi non lavorati ai fini pensionistici. I lavoratori titolari di un contratto di lavoro in regime di part-time verticale ciclico, possono godere dell’anzianità contributiva ai fini della determinazione della data di acquisizione del diritto alla pensione, anche per il periodo non lavorato, posto che gli stessi discendono dalla normale esecuzione del rapporto a tempo parziale e non dalla sua sospensione.

A stabilirlo è la Corte di Cassazione, sentenza n. 10526 del 03.05.2018, precisando che si applica il principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo parziale e lavoratori a tempo pieno. Atteso che il lavoro a tempo parziale costituisce un modo particolare di esecuzione del rapporto di lavoro, caratterizzato dalla mera riduzione della durata normale del lavoro.

Part-time verticale ciclico: la vicenda

Una lavoratrice ricorre in giudizio contro l’INPS, al fine di vedersi riconosciuta l’anzianità contributiva per 52 settimane per tutti gli anni durante i quali aveva lavorato in regime di part-time verticale, con accredito dei soli contributi effettivamente versati distribuiti nell’arco dell’anno secondo un regime di continuità del rapporto.

Validità dei periodi non lavorati nel part-time: la decisione della Corte di Cassazione.

La Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso dell’INPS, ha precisato che – sempre con riferimento ai lavoratori part-time – la questione del minimale contributivo (e in generale quella del numero dei contributi settimanali da accreditare ai dipendenti) è questione distinta dall’anzianità previdenziale tout court. Va distinta quindi dalla relativa durata, anche ai fini previdenziali, dell’attività lavorativa. Il nostro ordinamento la svincola in più occasioni dall’effettiva prestazione lavorativa ed anche dalla misura dei contributi versati (Cass. nn. 23948 del 2015 e 8565 del 2016).

A venire in rilievo, infatti, non è già la questione relativa al numero dei contributi da accreditare al lavoratore in regime di part-time. Ma è importante la possibilità che essi, quale che ne sia l’ammontare determinato D.L. n. 463 del 1983, ex art. 7, siano riproporzionati sull’intero anno cui si riferiscono, ancorché siano stati versati in relazione a prestazioni lavorative eseguite in una frazione di esso.

La Cassazione ha richiamato una sentenza della Corte di Giustizia Europea (CGE). La stessa aveva evidenziato come la normativa italiana in materia contrastasse con la Direttiva n. 97/81.

Principio di non discriminazione fra part-time e tempo pieno

La Cassazione afferma quindi che, il principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo parziale ed a tempo pieno, implica che:

l’anzianità contributiva utile ai fini della determinazione della data di acquisizione del diritto alla pensione sia calcolata per il lavoratore con rapporto a tempo parziale ciclico come se egli avesse occupato un posto a tempo pieno, prendendo integralmente in considerazione anche i periodi non lavorati

Ciò in quanto il lavoro a tempo parziale costituisce un modo particolare di esecuzione del rapporto, caratterizzato dalla mera riduzione della durata normale del lavoro.

Conseguentemente i periodi non lavorati discendono dalla normale esecuzione di tale contratto e non dalla sua sospensione. Questi periodi infatti corrispondono alla riduzione degli orari di lavoro contrattualmente prevista nel part-time. Diversamente, secondo i Giudici di legittimità, si finirebbe per porre in essere una discriminazione.

Infatti, a fronte di una durata equivalente del proprio contratto di lavoro, il prestatore a tempo parziale maturerebbe l’anzianità contributiva utile ai fini della pensione con un ritmo più lento del collega a tempo pieno; con un trattamento deteriore e discriminatorio per i dipendenti part-time che, per il solo fatto di lavorare a tempo parziale, vedrebbero differire nel tempo la data di acquisizione del loro diritto alla pensione.

Su tali presupposti, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dall’INPS. Si afferma quindi la sussistenza del diritto della lavoratrice, con contratto part-time ciclico, all’inclusione anche dei periodi non lavorati nell’anzianità contributiva. Incidendo pertanto la contribuzione ridotta sulla misura della pensione e non sulla durata del rapporto di lavoro.

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Tags: ABC Pensionipart-time