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Stress da lavoro e responsabilità del datore: sì al risarcimento danni a questa condizione

l datore di lavoro deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare danni da stress, anche senza casi di mobbing. La sentenza.


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di - 4 Marzo 2024

Lo stress da lavoro può assumere diverse forme ed, in ogni caso, rappresenta una reazione psicologica che può anche avere durature conseguenze negative per la persona. Di fatto, la condizione può accompagnarsi a disturbi o problemi di natura fisica o sociale ed è il risultato dell’auto-convincimento di non essere in grado di rispondere, con tempestività, alle richieste o aspettative dell’azienda o datore di lavoro.

In altre parole, si parla tipicamente di stress correlato all’attività lavorativa in quelle situazioni in cui l’individuo ritiene che le richieste in ufficio – per intensità dell’impegno, numero di ore o altro – superano le risorse personali per farvi fronte.

Ebbene, una sentenza di alcune settimane fa, emessa dalla Corte di Cassazione, fa il punto proprio su questo tema, affermando che la responsabilità del datore di lavoro può sussistere anche in assenza di casi di mobbing conclamato.

Lo stress patito nell’ambiente professionale può dunque condurre al risarcimento danni da parte dell’azienda, anche in mancanza di intento persecutorio. Vediamo più da vicino il rilievo di questo pronunciamento della Suprema Corte, la sentenza n. 2084 del 19 gennaio scorso.

Stress da lavoro e responsabilità del datore di lavoro: la nuova sentenza della Cassazione

Certamente, un po’ di pressione e l’espressa richiesta datoriale di raggiungere un determinato obiettivo entro una certa data, possono migliorare le performance del personale e del singolo dipendente. Al contempo, in caso di raggiungimento di obiettivi importanti, la soddisfazione è molta.

D’altro lato, però, quando le richieste e la pressione divengono eccessive e sproporzionate rispetto all’orario di lavoro, alle mansioni di cui al contratto e alle competenze possedute, possono costituire una pericolosa fonte di stress da lavoro. Basti pensare ai turni intensi con molte ore di straordinario, ai ritmi troppo frenetici, alla ripetuta ricerca di obiettivi o alle necessità di budget, per fare solo qualche esempio dei fattori che più condizionano la psiche di un dipendente o di una dipendente.

Come accennato sopra, lo stress lavoro correlato emerge nelle circostanze in cui le richieste in ufficio superano la capacità di affrontarle o di controllarle. Pur non essendo di per sé una malattia, lo stress può costituire il ‘terreno’ per l’insorgenza di problemi di salute mentale e fisica, se si manifesta con intensità per periodi prolungati. Ecco perché evitare questo tipo di stress, con misure ad hoc per la salute e la sicurezza dei lavoratori, è un obbligo per l’azienda.

Il divieto di adottare condizioni di lavoro stressogene

Insomma, di certo non una situazione da sottovalutare, come dimostra la sentenza n. 2084 della Cassazione, emessa il 19 gennaio scorso. E non basta che colleghi e/o datore di lavoro non adottino comportamenti aggressivi e persecutori sul luogo di lavoro, al fine di colpire ed emarginare la persona che ne è vittima: occorre infatti che, oltre all’assenza di mobbing, l’azienda si adoperi attivamente per evitare situazioni di stress lavoro correlato, per uno o più dipendenti assunti.

Nel testo della sentenza, infatti, si trova scritto che sul datore di lavoro grava l’obbligo di:

astenersi da iniziative, scelte o comportamenti che possano ledere, già di per sé, la personalità morale del lavoratore, come l’adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici, oltre ovviamente a comportamenti più gravi come mobbing, straining, burn out, molestie, stalking e così via, alcuni anche di possibile rilevanza penale.

Ricordiamo inoltre che nel corso del giudizio giunto in Cassazione è emersa la violazione, da parte del datore di lavoro, dell’art. 2087 del Codice Civile. Detta violazione ha natura contrattuale e, perciò, il rimedio esperibile dal dipendente è quello della responsabilità contrattuale.

Buone prassi e onere della prova del datore di lavoro: chiarimenti

Secondo la Suprema Corte, i diritti del lavoratore – e in particolare quello all’integrità psicofisica – debbono essere rispettati scrupolosamente dal datore di lavoro, che anzi dovrà applicare i principi ergonomici in ufficio, progettando ed organizzando il lavoro in modo da adattarlo alle capacità e ai limiti fisici e cognitivi degli individui. In altre parole, l’ergonomia sul lavoro mira a creare un ambiente lavorativo sicuro, confortevole ed efficiente, che minimizzi il pericolo di lesioni, malattie professionali, stanchezza e stress da lavoro.

Ebbene, proprio l’adozione di condizioni di lavoro stressogene o che non tengono conto dei principi ergonomici, possono configurare comportamenti anche colposi che ledono la personalità morale del dipendente o della dipendente.

In dette circostanze e innanzi ad accuse in tribunale, il datore di lavoro dovrà provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad evitare un danno e tutte le misure atte ad assicurare salute e sicurezza sul luogo di lavoro. Altrimenti rischierà di essere ritenuto responsabile dei danni ed obbligato al pagamento dei danni.

Come spiega la Corte di Cassazione:

La tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore non ammette sconti, in ragione di fattori quali l’ineluttabilità, la fatalità, la fattibilità economica e produttiva, nella predisposizione di condizioni ambientali sicure.

La sentenza n. 2084 dello scorso gennaio peraltro si allinea alla giurisprudenza in materia. Nel testo, infatti, si trova scritto che già in passato lo stesso giudice ha inteso l’obbligo datoriale di “tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” nel senso di comprendere altresì l’obbligo della adozione di ogni misura “atipica”, ma mirata alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori.

Conclusioni

Alla luce della sentenza della Cassazione n. 2084 dello scorso gennaio, il datore di lavoro è tenuto ad astenersi da iniziative che possano compromettere i diritti fondamentali del dipendente e la sua personalità morale, tramite l’adozione di condizioni lavorative “stressogene”.

Nella sentenza citata la Corte prende le distanze dalla tesi prospettata dalla Corte d’Appello, che parlava di mere carenze gestionali ed amministrative. Anzi, queste ultime – se prolungate nel tempo – possono certamente essere fonte di stress per il dipendente.

Da parte sua, per difendersi, il datore di lavoro dovrà dimostrare – in una eventuale causa contro il dipendente – di aver rispettato le norme specificamente fissata in relazione all’attività svolta, ma anche di aver messo in pratica tutte le misure che – in relazione della peculiarità dell’attività e tenuto conto dello stato della tecnica – siano necessarie per tutelare l’integrità – anche psicologica – del lavoratore, vigilando inoltre sulla loro osservanza. In caso di mancato raggiungimento della prova – lo ribadiamo – il datore di lavoro sarebbe ritenuto responsabile ed obbligato a risarcire i danni alla vittima di stress da lavoro.

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This post was last modified on 4 Marzo 2024

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Tags: Cassazione