Un rapporto di lavoro subordinato, per sua natura, implica il conferimento di una retribuzione, come ricompensa per l’attività svolta. Si tratta di una regola generale, ovvia e comunemente praticata per non incappare nelle conseguenze del mancato versamento dello stipendio, anche se – come recentemente chiarito dalla Corte di Cassazione – possono esservi eccezioni.
Secondo i giudici di legittimità, infatti, le attività compiute a titolo oneroso possono essere incluse in un rapporto diverso da quello ‘di lavoro’, laddove sia provata la presenza di uno scopo solidaristico, al posto della finalità lucrativa che caratterizza la generalità dei rapporti di lavoro.
Su questi temi vediamo più da vicino i contenuti dell’ordinanza n. 9778 emessa dalla Corte di Cassazione alcune settimane fa, ed avente ad oggetto un rapporto astrattamente configurabile come lavorativo, ma reso nel quadro di una convivenza cd. more uxorio, e quindi tra persone non unite da vincolo matrimoniale. I dettagli.
Lavoro subordinato e convivenza more uxorio: il caso concreto all’attenzione della Cassazione
Secondo l’ordinanza n. 9778 dell’aprile scorso, va esclusa la gratuità della prestazione di lavoro dell’ex convivente che sia stata giornalmente e continuativamente attiva presso la struttura commerciale del compagno – e inclusa nella correlata gestione amministrativo contabile e nella organizzazione del lavoro.
La decisione della Cassazione giunge al termine di un articolato iter giudiziario in cui in appello si confermava la sentenza di tribunale, che aveva accertato l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e disposto la condanna del titolare di un’attività commerciale al versamento in favore della ex convivente della quota a lei spettante come retribuzione ed al risarcimento del danno scaturente da omessa contribuzione.
In secondo grado – si legge nell’ordinanza della Corte – il giudice aveva infatti ritenuto che la esistenza tra le parti di una convivenza more uxorio, poi terminata, non escludesse la configurabilità di un rapporto di lavoro dipendente – e retribuito – in relazione all’attività svolta dalla donna presso una struttura commerciale (nella titolarità dell’altro ex convivente), avente ad oggetto – rimarca ancora l’ordinanza – la vendita e riparazione di articoli sportivi.
Ebbene, in base alle prove emerse in giudizio e secondo l’interpretazione offerta dai magistrati dell’appello, la ex convivente era da ritenersi stabilmente inserita nella organizzazione aziendale del compagno, posto che:
- risultava che si fosse giornalmente occupata nell’attività di gestione amministrativa e contabile dell’esercizio commerciale, mantenendo ed attivando rapporti con clienti e fornitori;
- era presente nei giorni e negli orari di apertura al pubblico;
- si era occupata dell’organizzazione e della tenuta di corsi per i sub.
Contro la sentenza del secondo grado, il datore di lavoro ha fatto ricorso in Cassazione, contestando la natura subordinata dell’attività della donna, così come configurata nel provvedimento della corte d’appello e tale da determinare il diritto ad una retribuzione.
Rapporto lavorativo del convivente, la Cassazione spiega se va retribuito e quando vi è subordinazione
Come accennato sopra, l’ordinanza della Cassazione ha sostanzialmente confermato il provvedimento del secondo grado, rigettando il ricorso dell’ex convivente che asseriva la violazione dell’art. 2094 del Codice Civile e pur in mancanza di prova del fondamentale requisito della eterodirezione. In particolare, in assenza di quest’ultima, secondo il ricorrente doveva ritenersi in gioco la presunzione di gratuità dell’attività svolta in ragione del rapporto sentimentale, di convivenza more uxorio, al tempo esistente tra le parti in causa.
La vicenda in oggetto ha permesso alla Corte di fare luce sulla relazione intercorrente tra lavoro subordinato e convivenza more uxorio. Questo giudice ha infatti rimarcato che:
- ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro dipendente si presume compiuta a titolo oneroso, tuttavia può essere inclusa in un rapporto differente, caratterizzato dalla gratuità della prestazione, laddove sia provata la presenza della finalità di solidarietà a posto di quella lucrativa;
- sul piano dell’accertamento della natura subordinata del rapporto avutosi nell’ambito di convivenza more uxorio, è necessario considerare che le unioni di fatto sono caratterizzate da obblighi di natura morale e sociale, di ogni convivente verso l’altro.
Tali obblighi – spiega la Corte – si sostanziano altresì rapporti di natura patrimoniale e:
si configurano come adempimento di un’obbligazione naturale, qualora siano rispettati i principi di proporzionalità ed adeguatezza.
In conseguenza di ciò – prosegue l’ordinanza – in una situazione come quella di cui all’iter giudiziario, l’attività di lavoro e di assistenza effettuata in favore del convivente more uxorio assume questa connotazione laddove sia manifestazione dei vincoli di solidarietà ed affettività presenti in concreto e:
alternativi a quelli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive, quale il rapporto di lavoro subordinato, benché non possa escludersi che, talvolta, essa trovi giustificazione proprio in quest’ultimo, del quale deve fornirsi prova rigorosa, e la cui configurabilità costituisce valutazione, riservata al giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata.
Finalità di solidarietà o finalità lucrativa: quando la prestazione va retribuita?
Non caso la Corte ricorda che ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro dipendente si presume effettuata a titolo oneroso, ma può essere ricondotta ad un rapporto diverso, istituito affectionis vel benevolentiae causa (di natura gratuita), ove risulti provata la sussistenza della finalità di solidarietà al posto di quella lucrativa (vedesi anche Cass. 28.3.2018 n. 7703).
Sulla scorta di questo, la Suprema Corte ha ritenute fondate le conclusioni della sentenza d’appello, che ha ampiamente argomentato con riferimento alle circostanze fattuali emerse dalla prova orale, escludendosi con ciò la gratuità della prestazione. E in particolare – si legge nell’ordinanza – valorizzando:
- la quotidiana e costante presenza della lavoratrice presso la struttura del compagno;
- il suo pieno inserimento nella relativa gestione amministrativo contabile e nell’organizzazione del lavoro, anche implicante l’utilizzo di specifiche competenze professionali (svolgimento corsi in veste di istruttrice subacquea diplomata).
Ed è proprio il carattere assorbente delle energie dedicate dalla donna ex convivente, all’epoca pienamente inserita nella vita della struttura, e di intensità tale da precluderne lo svolgimento di autonoma attività lavorativa, a giustificare le conclusioni tratte dal giudice di merito in riferimento alla non gratuità della prestazione. In sostanza la donna andava pagata per il lavoro svolto.
Conclusioni
Infine la Corte non ha mancato di chiarire che l’accertamento dell’eterodirezione doveva essere inserito nel particolare contesto del rapporto sentimentale e di convivenza more uxorio avutosi.
Alla stregua di cui il concreto apprezzamento della natura dipendente del rapporto doveva considerare che l’elemento dell’eterodirezione si esprimeva qui in modo attenuato – senza obbligo di una sua concretizzazione in ordini specifici e dettagliati – anzi bastando a sostanziare la natura subordinata del rapporto di lavoro il pieno e stabile inserimento della lavoratrice nella organizzazione di lavoro del compagno e la mancanza in capo alla stessa di autonomia gestionale, come accertato dal giudice di primo e secondo grado.
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