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Reintegra per licenziamento illegittimo, quando è possibile

Non sempre il licenziamento illegittimo comporta la reintegra del dipendente sul posto di lavoro. Ecco cosa dice la Cassazione


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di - 8 Febbraio 2019

Il licenziamento illegittimo non sempre riconduce alla reintegra sul posto di lavoro. Per valutare se il lavoratore è meritevole di reintegra, bisogna osservare:

e il regolare funzionamento, sulla base dei quali si è operato il recesso. Esclusivamente in mancanza di tali elementi è possibile la reintegra.

A stabilirlo è la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3129 dell’1 febbraio 2019. Con tale pronuncia gli Ermellini hanno affermato che il licenziamento basato su un fatto illecito è illegittimo, ma è da valutare se sia necessaria la reintegra nel posto di lavoro, ovvero l’indennità risarcitoria.

Reintegra per licenziamento illegittimo: la vicenda

Nel caso di specie, il datore di lavoro licenziava per giustificato motivo oggettivo (GMO) un dipendente a seguito della perdita di un appalto. Il dipendente lamentava che avrebbe dovuto ricoprire mansioni di livello superiore, e non coincidenti quindi con il posto soppresso.

La vicenda finisce nelle aule del Tribunale di Milano. In questa sede i giudici dichiaravano il licenziamento illegittimo. Inoltre, ordinavano al datore di lavoro la reintegra sul posto di lavoro equivalente rispetto alle mansioni ed al livello riconosciuto. Inoltre, si condannava la società al pagamento dell’indennità risarcitoria nei limiti di 12 mensilità.

Secondo i giudici, infatti, doveva ritenersi manifestamente insussistente il fatto posto a giustificazione del licenziamento intimato, consistente nella perdita dell’appalto, non potendo un fatto illecito essere posto a fondamento, in un vincolo di causalità, con il recesso per giustificato motivo oggettivo.

La società impugna la sentenza e ricorre in Cassazione

Licenziamento per GMO illegittimo e reintegra: la sentenza

I giudici della Suprema Corte rigettano il ricorso incidentale ma accolgono il secondo motivo del ricorso. In particolare, gli ermellini premettono che ricade sul datore di lavoro l’onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione o il funzionamento dell’azienda nonché l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte.

Inoltre, l’illegittimo esercizio dello jus variandi determina la nullità di ogni patto contrario rispetto al divieto inderogabile di assegnare il lavoratore a mansioni inferiori. Dunque, l’assegnazione a mansioni diverse da quelle di assunzione o non di categoria superiore, costituisce atto giuridico nullo ai sensi dell’art. 2103.

Nel caso di specie, infatti, il trasferimento di ramo d’azienda è stato ritenuto che l’oggettiva contrarietà del provvedimento di trasferimento comportante dequalificazione professionale, non consentisse l’ascrivibilità dei lavoratori coinvolti all’ambito del personale adibito al ramo ceduto, con la conseguenza della inefficacia del trasferimento e della prosecuzione dei rapporti di lavoro con la società cedente.

Da qui deriva la pronuncia del giudice secondo cui non può un fatto illecito essere posto a fondamento, in base a un vincolo di causalità, del recesso intimato per giustificato motivo oggettivo, la risoluzione del contratto di appalto per la vigilanza dell’istituto di credito cui da ultimo è stato adibito il dipendente, non configurandosi etiologicamente connessa con la intervenuta soppressione del posto di lavoro.

In definitiva, i giudici affermano che il licenziamento è illegittimo ma la reintegra scatta solo se manca uno degli elementi inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento, sulla base dei quali si è operato il recesso.

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Tags: CassazioneLicenziamento