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Il lavoratore può criticare il datore di lavoro, anche su Facebook

Il lavoratore può criticare il datore di lavoro anche su Facebook e non può essere licenziato, a patto che non ci sia il reato di diffamazione


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di - 1 Giugno 2017

Il lavoratore può criticare il datore di lavoro su Facebook senza correre il rischio di essere licenziato?

Nell’era dei social network la Cassazione* si trova di nuovo a decidere su un caso legato a Facebook, ovvero sulla legittimità del licenziamento di un lavoratore da parte del datore di lavoro per avere usato frasi denigratorie su Facebook nei confronti dell’azienda.

Per la Cassazione rientra fra i diritti del lavoratore criticare la propria azienda, anche in pubblico o come in questo caso su Facebook, anche se queste critiche possono essere scomode e in qualche modo possono pregiudicare l’immagine dell’azienda.

A patto però che la critica sia manifestata in modo sereno e senza attacchi personali e privi di ragione, nei confronti ad esempio del proprio datore di lavoro o del proprio responsabile del personale.

Leggi anche: Criticare l’azienda si può, anche via email aziendale

Il lavoratore può criticare il datore di lavoro su Facebook?

Per la Cassazione cioè il lavoratore può criticare il datore di lavoro su Facebook, ma le critiche devono rimanere nei limiti del lecito e non devono quindi essere passibili di querela.

Questo significa che il licenziamento del lavoratore che critica l’azienda su Facebook è possibile solo quando questo comportamento integra gli estremi del reato di diffamazione, mentre in tutti gli altri casi si può avere al massimo una sanzione disciplinare.

La Cassazione inoltre ha specificato che, nel caso in cui non sussista il reato di diffamazione, ma le affermazioni del lavoratore, anche se scritte su Facebook, rientrino nel diritto di critica, il lavoratore ha diritto alla reintegra sul sul posto di lavoro, nonostante le modifiche apportate dal Jobs Act all’articolo 18 della Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) con il contratto a tutele crescenti.

Nel primo grado di giudizio il Tribunale riteneva legittimo e proporzionato il licenziamento del lavoratore perchè le sue frasi utilizzate nei confronti della datrice di lavoro sarebbero consistite in una “gratuita ed esorbitante denigrazione” e caratterizzate dalla “precisa intenzione di ledere, con l’attribuzione di un fatto oggettivamente diffamatorio, la reputazione del proprio datore di lavoro”.

La Corte d’appello dichiarava al contrario l’illegittimità del licenziamento, condannando il datore di lavoro al risarcimento del danno in misura pari alla retribuzione globale di fatto dal momento del licenziamento oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali, ed al versamento di ulteriori 15 mensilità a titolo di indennità sostitutiva della reintegra.

Per la Cassazione invece dato che “il fatto contestato va ritenuto insussistente quando comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità”, in tale ipotesi si applica la reintegra nel posto di lavoro.

Quindi il licenziamento è illegittimo e il lavoratore ha diritto alla reintegra sul posto di lavoro e al pagamento di tutti gli arretrati a far data dal licenziamento.

Cassazione Sentenza numero 27323/17 del 31/05/2017

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Tags: CassazioneContratto a tutele crescentijobs actLicenziamento