Nel quotidiano di molti lavoratori, soprattutto in ambito sanitario, industriale o nei servizi, ci sono momenti che si danno per scontati: cambiarsi, indossare una divisa, prepararsi prima di timbrare ufficialmente l’inizio turno. Azioni rapide, ripetute ogni giorno, ma che spesso non sono considerate parte del lavoro vero e proprio. Eppure, lo sono.
Quando l’azienda impone che la vestizione avvenga sul posto di lavoro, per ragioni di sicurezza, igiene o regolamento interno, quel tempo non è una scelta del lavoratore, ma una necessità organizzativa. E se è una necessità imposta, allora ha un valore giuridico, e soprattutto economico.
Su questo punto, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 12519 del 12 maggio 2025, ha semplicemente ribadito ciò che già numerose decisioni avevano chiarito: il tempo della vestizione obbligatoria rientra a pieno titolo nell’orario di lavoro, e deve essere retribuito.
Non si tratta quindi di una novità assoluta, ma di una conferma che rafforza una linea già tracciata da anni. Una linea che riconosce come anche le fasi preparatorie abbiano dignità lavorativa, soprattutto quando sono richieste e organizzate dal datore di lavoro.
Cos’è il tempo tuta (o tempo divisa)
Con l’espressione “tempo tuta” (o “tempo divisa”) si indica il periodo necessario al lavoratore per indossare e togliere abiti o dispositivi obbligatori forniti dall’azienda, come ad esempio camici, divise, tute protettive, scarpe antinfortunistiche, guanti, caschi o altri indumenti da lavoro.
Questo tempo non riguarda una scelta personale del dipendente, ma una fase preparatoria imposta per regolamento aziendale, norme di sicurezza o esigenze igienico-sanitarie. È tempo che si svolge prima o dopo il turno vero e proprio, ma che può essere essenziale per iniziare o concludere correttamente la prestazione.
In molti ambienti lavorativi – come ospedali, stabilimenti industriali, mense, cantieri – la vestizione non può avvenire a casa, ma deve avvenire all’interno della sede di lavoro, spesso in spogliatoi appositi e con precise modalità. Proprio per questo motivo, la giurisprudenza ha stabilito che quando il tempo tuta è organizzato e richiesto dall’azienda, deve essere considerato lavoro effettivo e quindi retribuito.

Indossare o togliere la divisa è lavoro, se richiesto in sede
La sentenza ha confermato che quando il datore di lavoro impone di cambiarsi in azienda, e ciò è funzionale al servizio – ad esempio per motivi igienici o di sicurezza – il tempo dedicato a questa attività non può essere considerato personale, né tanto meno gratuito.
La questione riguarda in particolare il personale sanitario, ma vale per tutti i settori dove la vestizione è regolata dall’organizzazione aziendale. Il lavoro, in questi casi, non comincia solo con il contatto diretto con l’utenza o con l’accensione del computer: comincia nel momento in cui si adempie a un obbligo operativo imposto dall’alto.
Retribuzione del tempo di vestizione: cosa dice la legge
Il principio stabilito – o meglio, riaffermato – è semplice: se il tempo è “eterodiretto”, cioè imposto e regolato dal datore di lavoro, allora è lavoro effettivo. E quindi deve essere retribuito.
Non può essere trattato come “eccedenza oraria”, né assorbito automaticamente nel turno giornaliero. Neppure può essere compensato con riposi, se non su richiesta esplicita del lavoratore. La retribuzione, insomma, è il riferimento principale.
Cosa può fare il lavoratore
Questa decisione rafforza un principio importante, troppo spesso ignorato: il tempo del lavoratore ha valore in ogni sua parte, anche in quelle che sembrano secondarie o “tecniche”. Chi è stato obbligato a cambiarsi in sede per anni, senza ricevere alcun riconoscimento economico, può valutare se ci sono gli estremi per chiedere il pagamento degli arretrati, entro i limiti di prescrizione previsti dalla legge.
Ma più in generale, il messaggio è chiaro: non esistono attività lavorative invisibili, se sono richieste e organizzate dal datore. Anche indossare una divisa, in determinati contesti, è lavoro vero. E come tale, va pagato.
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