La rivalutazione delle pensioni per il 2026 è stata fissata all’1,4% dal decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Un incremento che, almeno sulla carta, dovrebbe tutelare il potere d’acquisto dei pensionati adeguando gli assegni al costo della vita.
Nella realtà, però, quell’1,4% si traduce in aumenti quasi simbolici e in alcuni casi produce effetti paradossali: chi ha versato più contributi può ritrovarsi con importi netti inferiori rispetto a chi percepisce prestazioni assistenziali o pensioni integrate al minimo.
È l’immagine che emerge dallo studio della CGIL e dello SPI, coordinato da Ezio Cigna, che analizza gli effetti della rivalutazione 2026 e le distorsioni generate dal sistema attuale.
Cos’è la rivalutazione delle pensioni e perché è così importante
La rivalutazione, chiamata anche perequazione, è il meccanismo che adegua annualmente gli importi delle pensioni all’inflazione misurata dall’indice FOI. Ha lo scopo di mantenere stabile il potere d’acquisto dei pensionati, evitando che l’aumento dei prezzi eroda i loro redditi reali.
Secondo l’analisi della CGIL, però, l’attuale meccanismo di rivalutazione — combinato con la tassazione e con l’aumento delle prestazioni assistenziali — sta generando effetti molto diversi da quelli attesi. E, in alcuni casi, penalizza proprio i pensionati con storie contributive più lunghe.
Rivalutazione pensioni 2026: l’1,4% che produce aumenti da 3 a 17 euro
Aumenti troppo bassi per definire la misura un “adeguamento”
Gli incrementi derivanti dall’1,4% di rivalutazione sono molto modesti. Come riporta lo studio della CGIL:
- pensioni minime: +3 euro al mese,
- pensioni da 800 euro netti: +9 euro,
- pensioni da 1.000 euro netti: +11 euro,
- pensioni da 1.500 euro lordi: +17 euro netti.
Aumenti che, come evidenzia la CGIL, “fanno fatica perfino a essere chiamati aumenti”, perché spesso non coprono neppure un giorno di spesa alimentare.
Gran parte della rivalutazione lorda viene assorbita dalle tasse
Il problema principale è che l’aumento lordo viene in larga parte eroso da:
- IRPEF,
- addizionali regionali e comunali,
con effetti particolarmente pesanti proprio sulle pensioni più basse ma comunque imponibili.
Il risultato è che una pensione aumenta formalmente del +16,46% lordo tra il 2022 e il 2026, ma il netto cresce solo del 12–13%.
Il grande paradosso della rivalutazione: chi ha meno contributi può ricevere di più
L’analisi CGIL mette in luce una dinamica sorprendente: le prestazioni assistenziali e le pensioni minime integrate con maggiorazioni sociali aumentano di più, in termini netti, rispetto alle pensioni contributive basse.
Nel 2025, le prestazioni assistenziali maggiorate arrivano a 747 euro netti mensili, destinati a superare 770 euro netti nel 2026: importi totalmente esenti da tassazione.
Una pensione contributiva, invece:
- paga l’IRPEF,
- subisce le addizionali,
- vede una parte della rivalutazione svanire,
- riceve aumenti netti molto più bassi.
Secondo lo studio della CGIL, questo crea una distorsione che “favorisce chi riceve prestazioni assistenziali rispetto a chi ha contribuito per molti anni, pur trovandosi entrambi in condizioni economiche di fragilità”.
Tre casi reali che mostrano l’effetto distorto della rivalutazione
Lo studio riporta tre esempi particolarmente chiari.
Caso A – Pensione bassissima, ma integrata e maggiorata (la più alta delle tre)
- Pensione maturata: 384 €
- Integrazione + maggiorazioni: 749 € netti
- Nessuna tassazione
È la più alta tra i tre casi, pur avendo alle spalle la carriera contributiva più debole.
Caso B – Pensione contributiva più alta, ma tassata
- Pensione maturata: 692 €
- Maggiorazione minima
- IRPEF e addizionali: oltre 25 €
- Netto: 710 €
Nonostante i contributi più elevati, prende 38 euro in meno del Caso A.
Caso C – Pensione contributiva di 807 €, ma con forti trattenute
- Assenza di maggiorazioni
- Tasse e addizionali: 60 €
- Netto: 745 €
Dopo anni di lavoro si ritrova con un netto quasi identico a quello assistenziale.
È il paradosso messo in evidenza dalla CGIL: chi ha lavorato di più può percepire meno.
Rivalutazione e inflazione: il divario non si chiude
Il biennio 2022–2023 ha prodotto una perdita di potere d’acquisto superiore al 10%. La rivalutazione 2026 dell’1,4% non è sufficiente a colmare questo gap.
Esempio significativo: una pensione lorda da 1.000 euro, rivalutata dal 2022 al 2026, cresce del +16,46% lordo, ma il netto aumenta solo del +12,9% — troppo poco rispetto all’inflazione reale.
L’effetto forbice della rivalutazione: crescono gli assistenziali, si schiacciano i contributivi
Secondo l’analisi CGIL/SPI, il combinato tra:
- rivalutazione debole,
- no tax area ferma a 8.500 euro,
- aumento delle maggiorazioni sociali,
- totale esenzione fiscale per le prestazioni assistenziali,
genera un vero “effetto forbice”:
- da un lato, le pensioni assistenziali crescono quasi integralmente in termini netti;
- dall’altro, le pensioni contributive basse subiscono un doppio colpo: rivalutazione limitata + tasse.
Un problema di equità: stessi bisogni ma trattamenti diversi
Il punto più critico, evidenziato dallo studio della CGIL, è che due pensionati con la stessa fragilità economica possono ricevere importi netti molto diversi solo perché:
- uno percepisce una prestazione assistenziale,
- l’altro una pensione contributiva poco sopra la soglia di imposizione.
Il sistema, così strutturato, manda un messaggio distorto: chi ha versato contributi e tasse per anni può ritrovarsi penalizzato, mentre chi rientra nelle prestazioni assistenziali riceve di più.
Le soluzioni indicate dalla CGIL per correggere la rivalutazione
Lo studio propone tre interventi urgenti:
1. Rivalutazione piena almeno fino a quattro volte il minimo
Per evitare che le pensioni contributive basse siano continuamente penalizzate dalle tasse.
2. Adeguamento della no tax area
Ferma da anni, non è più coerente con gli importi reali dei trattamenti assistenziali maggiorati.
3. Coordinamento tra fiscalità, maggiorazioni sociali e rivalutazione
Serve per eliminare i paradossi che oggi premiano chi ha lavorato meno.
Conclusione: la rivalutazione delle pensioni 2026 apre un problema strutturale
La rivalutazione pensioni 2026, con il suo 1,4%, è formalmente corretta ma sostanzialmente insufficiente.
Gli esempi portati dalla CGIL mostrano un sistema che:
- aumenta troppo poco,
- penalizza le pensioni contributive,
- premia le prestazioni assistenziali,
- non recupera l’inflazione,
- e rischia di minare la fiducia nel principio contributivo.
Un tema che non riguarda solo i pensionati di oggi, ma anche chi andrà in pensione domani.
Fonte: studio CGIL – CGIL SPI (Gli effetti della perequazione delle pensioni nel 2026 a cura dell’ufficio Previdenza della CGIL e dello SPI – coordinatore Ezio Cigna Responsabile politiche previdenziali Cgil Nazionale)
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