La Corte di Cassazione, V sez penale, con sentenza nr. 9225 dell’8 marzo 2010 ha stabilito che le molestie sessuali perpetrate da un superiore gerarchico nei confronti delle subordinate costituiscono violenza privata.
L’art.610 c.p. dispone che: “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni”.
Il fatto riguardava il direttore Sanitario di una Asl portato in giudizio da parte una dottoressa, un infermiera e una tecnica di radiologia, per “aver usato pressioni e minacce per indurle a concedergli favori sessuali”.
Molestie sessuali sul luogo di lavoro
Il Tribunale di primo grado assolveva l’imputato per il reato in danno della dottoressa con la formula “perché il fatto non sussiste”, con riguardo alle altre due dipendenti, il Tribunale dichiarava la prescrizione del reato.
La Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, derubricato il reato di violenza privata in danno della dottoressa in quello di tentativo, dichiarava la prescrizione dei reati, condannando l’imputato al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite.
Leggi anche: mobbing sul lavoro
Cassazione: le molestie sessuali sul luogo di lavoro costituiscono violenza privata
Secondo gli Ermellini, “le insistenti richieste di prestazioni sessuali, rivolte con la protervia e l’arroganza che l’abuso del ruolo di superiore gerarchico della vittime consentiva e i comportamenti vessatori che facevano seguito in guisa di sanzione dei rifiuti, integravano ampiamente la fattispecie di violenza privata, in quanto costringevano le vittime a patire ingiuste e mortificanti vessazioni, inducendo in loro non solo sofferenza e malessere, ma anche concreti pregiudizi della loro serenità sul lavoro e delle loro legittime aspirazioni a progressioni in carriera, lasciate intravedere solo in guisa di ricompensa di disponibilità, manifestata sotto forma dell’intrigante offerta del proprio corpo allo sguardo mercé l’ausilio di abbigliamento acconcio”.
Il sistematico atteggiamento, protratto nel tempo, per durata significativa, costituito di richieste indecenti, lusinghe e minacce, solo per il fatto di costringere le vittime a patirne l’impatto, costituisce di per sé violenza.
Non aveva quindi alcun riscontro
“la capziosa tesi del Tribunale, secondo il quale siccome reprimende, contestazioni e minacce di sanzioni disciplinari erano successive ai rifiuti, non potevano essere qualificate quali violenze finalizzate al conseguimento di un risultato che era stato già negato. La Corte ha concluso che è sufficiente considerare che era la stessa caratterizzazione deteriore del rapporto di lavoro a costituire violenza e non aveva senso parcellizzare ciascun episodio svalutando il contesto, che amplificava la violenza, rendendola penosa e inaccettabile”.
Segui gli aggiornamenti su Google News!
Segui Lavoro e Diritti su WhatsApp, Facebook, YouTube o via email