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Home»Sentenze Lavoro»Rifiuto al trasferimento del lavoratore: licenziamento legittimo

Rifiuto al trasferimento del lavoratore: licenziamento legittimo

Daniele Bonaddio20 Giugno 20183 Mins Read
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La recente giurisprudenza si è pronunciata in merito alla legittimità del licenziamento in caso di rifiuto del lavoratore al trasferimento in altra sede

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Rifiuto al trasferimento del lavoratore: licenziamento legittimo

È legittimo il licenziamento in caso di rifiuto di trasferimento del lavoratore. Secondo la recente giurisprudenza sì. Qualora i lavoratori si rifiutano categoricamente a trasferirsi in altre sedi di lavoro, il datore di lavoro può effettuare il licenziamento disciplinare; dopo aver ovviamente rispettato l’iter della preventiva contestazione disciplinare di cui all’articolo 7 dello Statuto dei lavoratori (L. n. 300/1970).

A darne notizia è la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza n. 15885 del 15 giugno 2018, con la quale gli ermellini hanno deciso che non sussiste, né la violazione dei principi di correttezza e buona fede né si è concretizzata la fattispecie di abuso di diritto

Rifiuto trasferimento licenziamento disciplinare

La vicenda tra origine dal licenziamento disciplinare di 11 dipendenti di un’unità produttiva, le cui attività sono state subappaltate a terzi, con sedi lontane e disagiate da raggiungere.

L’azienda, come alternativa al licenziamento disciplinare, aveva proposto ai dipendenti chiamati in causa la possibilità di firmare un verbale di conciliazione in sede sindacale in cui, a fronte dell’accettazione del licenziamento, venga riconosciuto un incentivo in denaro.

Trasferimento del lavoratore: quando scatta l’abuso del diritto?

In tali casi, ossia quando il datore di lavoro impone al proprio dipendente di trasferirsi in un nuova unità operativa, più distante dalla nuova, è molto facile che lo stesso incorra nell’abuso del diritto. Tuttavia, nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto che il trasferimento del lavoratore non configura in alcun modo un abuso del diritto da parte dell’azienda, in quanto la stessa ha mantenuto un comportamento conforme e adeguato ai canoni di buona fede e correttezza.

Ma quando scatta l’abuso del diritto? Affinché possa definirsi integrato l’abuso di diritto, è necessario che il comportante del datore di lavoro sia tale che:

  • da una parte, vi è il conseguimento di un obiettivo ulteriore e diverso rispetto a quelli previsti e riconosciuti dalla legge;
  • e dall’altra, si realizza comunque un svantaggio e un sacrificio nei confronti dei lavoratori ritenuto ingiustificato al solo scopo di prefigurare un vantaggio per l’impresa.

Trasferimento del lavoratore in altra sede lontana

Il datore di lavoro aveva offerto ai lavoratori di firmare un verbale di conciliazione in sede sindacale; nel quale affermavano di accettare il licenziamento, e di ricevere un incentivo economico. Questo per evitare che l’azienda adottasse l’estrema ratio del licenziamento disciplinare per l’insubordinazione di trasferirsi in altra sede più lontana e difficoltosa da raggiungere.

Secondo i lavoratori tale condotta risultava assolutamente sbagliata, in quanto costitutiva espressione di forzatura e di abuso dei poteri datoriali.

I massimi giudici la pensano diversamente e confermano l’orientamento espresso in primo e secondo grado. Difatti, i giudici hanno posto rilievo al fatto che ai lavoratori era stata comunque prospettata in modo legittimo e trasparente la scelta tra conciliazione con risoluzione e le conseguenze del trasferimento di sede.

Dunque, a nulla rileva la questione che l’azienda non abbia adottato una misura aziendale non in linea alla salvaguardia degli interessi dei lavoratori; pertanto, non si verifica l’abuso di diritto, laddove la condotta del datore di lavoro persegua un risultato lecito attraverso mezzi legittimi.

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